«Mi sembra che in Italia non ci sia una forte crisi. La vita in Italia è la vita di un Paese benestante, i consumi non sono diminuiti, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto, i ristoranti sono pieni» ha detto il premier Berlusconi durante la conferenza stampa conclusiva del G20.
Una frase che ha subito suscitato critiche in chi, stampa e associazioni di categoria per prime, ha in mano i numeri per contestare che in Italia va tutto bene.
I ristoranti, in primis, non sono pieni come ai tempi d’oro.
La crisi non è un’impressione, un fatto psicologico, è una realtà in numeri. Già un anno e mezzo fa il Sole24ore aveva pubblicato dati preoccupanti sul fuori casa, in una indagine il cui campione era costituito da circa 5000 locali recensiti sulle maggiori guide. All’epoca, quando ancora non si parlava di crisi “nera” come adesso, s’era dimezzato il numero di coperti dei locali di fascia alta. Oggi le cose non vanno di certo meglio. Secondo un’indagine di Federconsumatori le cene fuori casa, e non parliamo più solo di locali stellati, sono calate del 50% (1,5 volte al mese nel 2010 rispetto a 3 volte del 2002).
Insomma, i numeri parlano chiaro, il settore ristorazione, sebbene sia uno dei più robusti, soffre come tutti i settori.
Fipe a Milano, qualche giorno fa, agli Stati generali di Confcommercio aveva affermato: «Una crisi come questa ha fatto vittime e danni ovunque, anche nel settore dei pubblici esercizi».
Neppure gli alberghi sono più pieni come una volta. Sebbene siano stati buoni i dati pervenuti dal Ministero presieduto dalla Brambilla sull’estate 2011, bisogna ricordare che larga parte delle prenotazioni quest’anno è stata a nome di turisti provenienti dall’estero. Le statistiche Istat raccontano che il 50,1% degli italiani che ha rinunciato alle vacanze lo ha fatto per carenze di risorse economiche. Nel 2001, dieci anni fa, chi rinunciava alle vacanze per motivi economici era solo il 33,1%. Gli italiani insomma, hanno fatto meno viaggi e pernotti e se hanno “fatto le vacanze” hanno speso meno, segno anche questo di una austerity che giocoforza, volenti o nolenti, sta caratterizzando i consumi.
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