Il nostro Paese sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia. Il Covid-19, il virus subdolo e invisibile genera morte e angoscia, in prima linea gli operatori sanitari ai quali va l’immenso grazie di tutti gli italiani. Sono in tanti a pensare che, dopo aver superato l’emergenza, l’Italia si ritroverà ancora più unita, certamente più unita di quel 17 marzo del 1861, ad oggi 159 anni, quando l’Italia, dopo millenni di divisioni di stati e staterelli, fu riunificata.
Ai tempi del Coronavirus - con i locali chiusi per decreto scavando nella storia patria - scopriamo che ad unire negli anni gli italiani ha contributo anche la piccola e gustosa storia delle bevande; così come vi è pure la storia dei locali italiani: dagli antichi caffé ai moderni bar, dalle trattorie alla buona di una volta ai ristoranti di oggi, dalle locande alle pizzerie. In questi luoghi collettivi gli italiani, negli ultimi anni, sorseggiando un caffé, oppure un Vermouth o un grappino, hanno consumato e replicato, senza forse saperlo, un rito collettivo e lì, in quei luoghi d’aggregazione, degustando l’aperitivo del momento o mangiando lo stesso unitario cibo, hanno vissuto giorno dopo giorno momenti di fondamentale socializzazione e, inconsapevolmente, cementato e reso più salda l’unità del Paese.
Intorno a una pizza e con in mano un boccale di birra - altro comune rito della nostra società - hanno scoperto di avere gli stessi gusti, di anelare agli stessi piaceri, svelando e consolidato una comune identità si sono così scoperti più italiani, hanno riso dei loro (nostri) mille difetti e gioito dei pochi, ma impagabili pregi. Sicché, se l’Italia e noi italiani oggi siamo più uniti una piccola parte del merito va anche a quella storia, a volte poco conosciuta che si cela dentro a una bottiglia, alle mode che evoca e induce, ai comuni gusti che stimola e aggrega.
Il Barolo di Cavour
Senza la presunzione di voler fare un trattato storico, ma solo per il piacere di scoprire quanto certe bevande e certi luoghi, dove esse si consumavano, hanno segnato la nostra comune storia, andiamo a guardare da vicino cosa anavano ad esempio, bere, i Padri della Patria. Apprendiamo così che Camillo Benso, Conte di Cavour (1810-1861) non avrebbe mai e poi mai rinunciato al suo bicerin, un mix di caffè, cioccolato e panna. A quei tempi era uso berlo, molto caldo, negli storici caffé torinesi. Luoghi nei quali si viveva la quotidiana socialità del tempo, così come la si sarebbe vissuta, in seguito, nei centomila e più bar che sarebbero, fino ai giorni nostri, sorti lungo tutto lo stivale.
Del bicerin il conte era ghiotto e scrutandolo nelle ingiallite foto d’epoca potremmo pensare che le potenti calorie che il mix conteneva, più che allo sviluppo delle idee politiche, contribuirono senz’altro alle sue paffute rotondità.
Apprendiamo, inoltre, che a Cavour piaceva molto il Marsala, lo gradiva in special modo con le ostriche. Chi l’avrebbe mai detto? Il serioso primo ministro del giovane Regno d’Italia, che si era sempre (con una certa spocchia) rifiutato di visitare le regioni più a Sud di Firenze e di Bologna era estasiato dal vino siculo per antonomasia. In pratica, se da un lato il nostro Camillo aveva fatto l’Italia senza mai completamente visitarla …”Ah, se avessi conosciuto certe regioni del Sud, non avrei mai fatto l’Italia”… affermava con piemontese protervia, dall’altro, a proposito di Sud e per quello che di speciale offriva, aveva ben altri gusti e affinità. Sono i piccoli miracoli che sanno compiere certe bevande. Sempre a proposito del suo buon bere va anche detto che lo statista era uno straordinario esperto di vini. In Piemonte aveva per lunghi anni gestito la tenuta agricola di Grinzane dove produceva un Barolo d’eccellenza che per pregio e qualità era alla pari con i più prestigiosi Bordeaux e Borgogna. Tanto eccelso da poter vantare anche delle virtù diplomatiche: quando lo statista, o un suo referente partiva per una capitale straniera si preoccupava sempre di portare con se qualche bottiglia. Ieri, come ai nostri tempi, il buon vino aveva (come ha) la capacità di far godere le papille gustative, di sciogliere la lingua e forse rendere più piacevole anche la politica estera. Oggi il nome Cavour è addirittura un famoso brand che firma una gamma di spumanti. Vedete come è facile fondere e confondere la storia d’Italia con le bevande?
Il drink di Casa Savoia
Anche l’altro famoso Padre della Patria vanta storielle di bevande e beveraggi. Si sa che Re Vittorio Emanuele II (1820 - 1878) fu buongustaio e ottimo bevitore, oltre che impenitente dongiovanni, preferiva i vini rossi importanti, il Barolo in primis, ma nel rifocillarsi dei suoi piatti preferiti: il Tajarin, la Selvaggina al civet o alla brace, la classica bagna caoda, rigorosamente con solo aglio, olio e acciughe, non trascurava per nulla gli altri classici vini piemontesi. Ma non di solo vino s’inebriava il regale palato: i pettegoli di corte affermano che tracannava senza darsi peso un bel bicchierone di Vermouth prima, e anche dopo, le sue irrinunciabili e quotidiane fatiche d’amore.
Il Vermouth era, già da allora, un liquore in gran voga nelle savoiarde usanze ed era stato “inventato” qualche decennio addietro da Antonio Benedetto Carpano, un giovanotto sveglio dalle sicure intuizioni che apprezzando parecchio il moscato volle addizionarlo con erbe e spezie e poi renderlo “amabile” con l’aggiunta di zucchero. Nacque così il Vermouth, e fu un successo strepitoso, tanto da essere immediatamente introdotto nelle usanze di Casa Savoia, e successivamente anche in quegli degli italiani.
L’intuizione di Carpano fu pronuba di una vera e propria elite di imprenditori piemontesi che avrebbero fatto la storia del beverage nazionale. I Cora, i Cinzano, i Martini & Rossi, i Gancia e altri ancora, per merito dei quali il Vermouth divenne moda, prima nazionale e poi internazionale.
Ma la fama di Carpano è legata a un prodotto ancor più particolare. Un cocktail ante litteram nel quale veniva mixato una dose di Vermouth e mezza di china, ne derivava una bevanda piacevolmente amarognola, il mitico Punt e Mes. Fu il primo mix ufficiale del regno unito, la sua nascita è datata infatti 1870. La specialità non dovette mancare di piacere, fra gli altri piaceri, al nostro augusto padre della patria.
Il the dell’eroe dei due mondi
Giuseppe Garibaldi (1807-1882) aveva gusti spartani e non era, diciamolo subito, un fine intenditore. Anche le sue preferenze in fatto di bere erano in linea col personaggio: spiccio e risoluto, senza fronzoli né orpelli.
A tavola beveva poco vino e (orrore) lo allungava con l’acqua, insomma amava pasticciare (il termine alla garibaldina un senso dovrà pur averlo, no?) e, ogni poco, in special modo nei suoi ultimi anni a Caprera si preparava degli intrugli con le erbe del suo orto. Otteneva così una sorta di Mate che gustava suggendo dalla cannuccia di metallo. Era i sostanza una sorta di elisir (o se volete un soft drink alla garibaldina) con il quale pretendeva di deliziare i suoi ospiti. Non abbiamo notizie che la cosa fosse loro gradita. Al Garibaldi piaceva anche il caffé, e questo è normale: quello che invece non lo era e che ne usava i fondi per scurirsi la barba. Un vezzo nel quale si cela quella voglia di non invecchiare e non darsi per vinto che ha sempre animato l’eroe dei due mondi.
Ma quello a cui il condottiero tricolore non avrebbe mai rinunciato era il the dopo il pasto. Si preparava dei beveraggi da portata che consumava lentamente. L’estate poi combatteva la sete con l’orzata. Da questo elenco di bibite soft ne viene fuori un personaggio da gusti sobri, come in fondo lo era, poco avvezzo all’alcol, il che è anche vero, ma con qualche eccezione. Al Garibaldi, come al Cavour, il Marsala piaceva assai, e più era dolce, e più gli piaceva tanto che questo suo gusto è passato agli annali. Ancora oggi si commerciano bottiglie di Marsala con su stampigliata la scritta DG, che sta per Dolce Garibaldi: ovvero dolce come piaceva al Generale. L’altro liquore che non disdegnava era il limoncello, almeno stando a quanto riportano le cronache del suo soggiorno a Napoli al termine della storica spedizione dei mille, con la quale praticamente unì l’Italia. Le cronache partenopee del Garibaldi registrano però un altro aneddoto, questo più gastronomico e che ben si concilia con la piccola storia che vogliamo raccontare: quella della bevande, ma anche quella dei luoghi e dei locali nei quali poi avrebbe preso corpo la socialità e anche l’identità degli italiani.
Un Pizza per un Regno
La storiella per certi versi ha dell’incredibile, ma forse non tanto, considerando la semplicità, il pragmatismo, l’assoluta mancanza di formalità che apparteneva al Peppino nazionale. È il mattino del 26 ottobre 1860, Garibaldi e Vittorio Emanuele II si incontrano a Teano per il passaggio delle consegne. E la consegna riguarda un intero regno: quello delle Due Sicilie conquistato da Garibaldi con i suoi Mille che veniva praticamente regalato a casa Savoia. La pratica fu sbrigata senza suoni di fanfare, i due si incontrarono lungo la strada e non scesero nemmeno da cavallo, percorsero un pezzo di strada insieme, parlottarono con frasi di circostanza e poi si congedarono. Racconta un testimone oculare, un fedelissimo del generale, tale Alberto Mario, che subito dopo l’incontro diplomatico, il generale con i suoi uomini si fermò a mangiare in una pizzeria dei paraggi, che poi era anche uno stallaggio. Mario così descrive la scena: «Su una pancuccia a due passi dalla coda del suo cavallo, mangiava di fronte a un barile di acqua sul quale gli avevano apparecchiato, una bottiglia di acqua del pane schiacciato con sopra del cacio».
Alberto Mario non lo sapeva, perchè non le conosceva, ma quelle che mangiava Garibaldi erano pizze: cos’altro potevano essere, in Campania, delle schiacciate di pane con su del formaggio? Delle Pizze per un Regno, dunque. Senza volerla sminuire, la pratica Italia si concluse in un pizzeria. Un segno del destino? A posteriori non possiamo dire che, si: la pizza, decenni dopo, sarebbe stato il piatto più consumato dagli italiani e la pizzeria un locale diffusissimo e frequentatissimo da gente di tutte le estrazioni sociali e in ogni angolo della Penisola: dal Nord al Sud, dalla Valle d’Aosta alla Valle dei Templi. Siamo, in fondo, quello che mangiamo, circostanza nella quale l’Italia è unita più che mai.
La birra di Mazzini
E ai giorni nostri, con la pizza è d’obbligo tirare in ballo anche la birra: infatti il 70% degli italiani adulti quando consuma una pizza preferisce accompagnarla con una spumeggiante birra. E di birra parliamo chiamando in causa il quarto, Padre della Patria, il non meno famoso Giuseppe Mazzini (1805-1872), il rivoluzionario e filosofo, fondatore della Giovine Italia promulgava, una politica alternativa: lui dell’Italia ne voleva una Repubblica. Forse anche per questo preferiva una bevanda altrettanto alternativa, come a quei tempi, in Italia, era la birra.
In questo lato del beverage mazziniano emerge un personaggio in antitesi con quella che è l’oleografia ufficiale, che ci riporta un figura un poco cupa e triste, assorta e pensosa, almeno stando a vedere i suoi ritratti e le sue fotografie. Eppure è certo, Giuseppe Mazzini, il “volto che giammai non rise”(come veniva descritto da Carducci), era un appassionato birrofilo e un fine intenditore della bevanda di Gambrinus e, con gli altri patrioti, faceva a lungo bisboccia nei pub di Londra, città nella quale fu per lungo tempo esiliato proprio per le sue idee politiche e anche perchè aveva ben due condanne sul groppone.
Le notizie del Mazzini birrafondaio sono avvalorate dalla recente scoperta di un fitto scambio di corrispondenza che l’ispiratore di Pensiero ed Azione ebbe per lunghi anni con una certa di Katherine Hill, fervente sostenitrice della causa italiana negli anni londinesi del patriota.
In una lettera suggerisce lui stesso, nero su bianco di scegliere la birra della Swan Brewery, realizzata in una delle principali birrerie londinesi, di proprietà dei mazziniani Sydney Hawkes e James Stanfeld: un locale che era diventato, con Mazzini cliente fisso, una specie di punto di riferimento della cospirazione italiana. E quindi, anche in questi pub, in questa sorta di locali serali, parenti non troppo alla lontana degli attuali lounge bar, ha preso corpo e vita il nostro Risorgimento.
Il piacere mazziniano di bere birra era certamente soddisfatto anche in Italia, a Genova, in special modo, dove più volte, anche se clandestinamente, si recava. Genova, sin da allora, grazie alla sua storia e alla sua ubicazione geografica, era la città più internazionale del nostro Paese. Il suo porto era il punto di incontro di merci, uomini e culture, e nei tanti localini ubicati nei carrugi la buona birra non mancava di certo. Non per nulla Genova , ancora oggi, è un punto di riferimento in tal senso, nonché sede di fior di importatori e di importanti multinazionali birraie.
L’Italia Unita del Beverage
Questo breve, e senz’altro imperfetto, omaggio che abbiamo voluto fare al mondo delle bevande in occasione dell’anniversario dell’Unità d’Italia (17 marzo 1861) nasce da una convinzione: l’Italia e gli italiani sono più uniti perché, senza forse volerlo, hanno saputo miscelare e apprezzare le tante e diverse bevande che hanno caratterizzato, e ancora caratterizzano, i gusti e le tradizioni locali della nostra varia penisola: dal Bicerin al Marsala, dai sabaudi cocktail ai garibaldini elisir, dal barolo alla birra e con esse, chissà quante altre bevande che abbiamo mancato di citare, e di ciò ce ne scusiamo.
Ma un fatto è certo: come abbiamo visto, andando a spulciare fra i serio e il faceto nei gusti degli eroi del risorgimento, nel DNA della nostra nazione scorrono anche le bevande, perché il bere, oltre che un bisogno fisico è da sempre, per l’uomo (e per gli italiani un po di più), un bisogno sociale e, nella giusta misura e nei giusti modi, anche un’imprescindibile rito nel quale accomunarsi e ritrovarsi. Un rito nel quale gli italiani sono cresciuti e si sono ancor più uniti.
Un’unità che, come abbiamo più volte ripetuto in questo scritto, ha preso ancor più corpo e sostanza in quei locali dove le bevande si usavano (e si usano) consumare: dagli eleganti caffé torinesi alle fumose locande genovesi, dalla pizzerie campane, agli aristocratici ristoranti sabaudi. Oggi li chiameremmo i locali HoReCA, ce ne sono ben 340.000 in tutta la Penisola, luoghi di ritrovo e di ristoro nei quali, anno dopo anno, si è innervata la nostra socialità e la nostra italianità. Sicché, oggi, in un bar con in mano un cordiale o in una pizzeria dinanzi a una fumante margherita e a una spumeggiante birra ci si sente senz’altro più italiani. Con l’auspicio di ritrovarci presto tutti insieme, dopo aver sconfitto il coronavirus, pronti ad alzare i calici ed urlare: Viva l’Italia!
Giuseppe Rotolo
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