Vino

15 Febbraio 2024

Americani innamorati di prodotti no e low alcol italiani, ma il business lo fanno le imprese d'oltreoceano

Castelletti di Uiv: «urge un intervento normativo sui dealcolati, i nostri competitor hanno almeno un biennio di vantaggio» 


Americani innamorati di prodotti no e low alcol italiani, ma il business lo fanno le imprese d'oltreoceano

Americani innamorati dei prodotti low alcol italiani: nel 2023 il fatturato per rossi, bianchi, spumanti, prodotti aromatizzati tricolori classificati da NielsenIQ come vini poco alcolici, in gran parte a fermentazione parziale oppure dealcolati ha raggiunto la cifra di 651 milioni di dollari. Bottiglie, ma anche lattine, da 7 gradi in giù, quasi totalmente sconosciute nel Belpaese, ma sempre più presenti tra gli scaffali d'oltreoceano. Vini italiani o prodotti a base vinicola venduti a un prezzo medio di quasi 16 dollari al litro, più del doppio rispetto alle omologhe bottiglie statunitensi (7 dollari) e addirittura il 5% in più al confronto con la media dei vini tricolori tradizionali.

Ma c’è di più. Come rilevano le elaborazioni dell’Osservatorio di Unione Italiana Vini (Uiv) su base NielsenIQ, se è vero che il vigneto è italiano, il business è nella stragrande maggioranza dei casi ad appannaggio di aziende a stelle e strisce (80% del valore delle vendite), che importano dal Belpaese il prodotto finito ed etichettato e lo rivendono sul mercato statunitense. Una produzione made in Italy per un affare made in Usa, con le cantine e le imprese italiane perlopiù relegate alla produzione e all’imbottigliamento.

Un paradosso per la superpotenza enologica e per l’Italian style, che tira anche su una categoria, quella “low”, relativamente giovane e - fatto salvo l’ultimo anno - protagonista di una cavalcata che, grazie al cambio di gusti tra le varie generazioni ed etnie del Paese, li ha portati a essere una scelta non più secondaria rispetto al vino classico.

Un paradosso insomma quello sui “low”, ancora più evidente se si guarda ai “no alcol”: si tratta di vini che partono da numeri bassi ma nel giro di due anni appena hanno raddoppiato le vendite negli Usa, attestate oggi – secondo l’Osservatorio Uiv - a 62 milioni di dollari. I prodotti italiani a zero alcol sugli scaffali statunitensi sono pochi, le vendite ammontano ad appena 4,5 milioni di dollari (+39% sul 2022) con un prezzo medio di 14 dollari al litro. Una quota residuale della presenza italiana (il 7% del totale), che diventa minuscola se si considera che il 90% delle vendite è imputabile a una sola azienda, per giunta americana, che acquista in Italia i prodotti finiti e li commercializza con marchio proprio.

In pratica il segmento no alcol direttamente gestito da imprese tricolori vale negli Usa meno di 500 mila dollari. Un contoterzismo del made in Italy enologico sulla falsariga dello scenario evidenziato per i low alcol, reso ancora più evidente dalla impossibilità per l’impresa Italia del vino di accedere a un business, quello dei dealcolati, bloccato dalle leggi vigenti nel Belpaese, ma non in Europa. Negli Usa, oltre ai marchi americani, sono già venduti vini a zero gradi totalmente dealcolati prodotti da aziende spagnole, tedesche e francesi, che traggono beneficio da una regolamentazione in linea con quella europea.

Paolo CastellettiPaolo Castelletti

«Il segmento low-alcol può rappresentare un’opportunità anche e soprattutto là dove il prodotto tradizionale fa fatica, come dimostra il record ventennale di vino rimasto in cantina al termine della scorsa campagna vendemmiale. Oggi per fare vini low alcol i produttori italiani hanno tre strade: utilizzare il vino come base per bevande aromatizzate, produrre vini da mosti parzialmente fermentati, oppure - in caso vogliano procedere con la dealcolazione - delegare il processo produttivo nei Paesi europei diretti competitor» commenta Paolo Castelletti, Segretario Generale di Uiv.

Proprio il segmento dei vini dealcolati sembra quello più interessante in ottica di medio termine, in grado di per intercettare le tendenze salutistiche in atto nel Paese, sempre più orientato a ridurre l’assunzione non solo di alcol ma anche di zuccheri. Una categoria, quella dei Nolo (low e no alcol), da molte imprese considerata a maggior potenziale di crescita qualitativa. In Italia purtroppo non si riesce a partire: «Da tempo Uiv sollecita un intervento normativo per disciplinare una produzione che l’Unione Europea ha autorizzato da più di due anni» ha detto Castelletti in merito. «Al netto delle bozze di decreto, siamo gli unici a non aver ancora recepito il regolamento Ue, con evidenti svantaggi competitivi rispetto ai produttori comunitari. Riteniamo quindi che il Governo debba trattare con la massima urgenza questo tema non più derogabile, definendo con chiarezza e assieme al comparto un perimetro chiaro di azione».

TAG: DEALCOLIZZAZIONE,PAOLO CASTELLETTI,UIV

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